Una mamma una volta mi ha chiesto come si fa a fare il rider. Lo domandava per suo figlio più grande.

– Basta andare sul sito e compilare il modulo “lavora con noi”, tanto cercano sempre.

– Oh, bene, grazie! Così almeno gli ho trovato un lavoretto per l’estate.

Avrei voluto dirle che forse sarebbe stato meglio cercare qualcos’altro. Qualcosa tipo il cameriere, che mette alla prova il carattere e che è molto meno pericoloso.

Sì, avrei voluto dissuaderla dal mandare il figlio appena maggiorenne a giro per le strade in bicicletta. Perché là fuori è pieno di gente che ha fretta, che infrange il codice della strada, che è stanca e che guida sovrappensiero. E il maltempo, il cottimo e il sudore non aiutano la soglia dell’attenzione a rimanere alta.

Fare il rider è facile, perché “lavori quando vuoi” e non c’è bisogno di consegnare con il sorriso.
Ma quello a cui non si pensa è che è altrettanto facile farsi male o, peggio, morire.

Sembrano possibilità remote, perché non siamo abituati a immaginare che la bicicletta sia un mezzo pericoloso, ma succede.

È successo a Pujan, un ragazzo di 22 anni che il 26 maggio 2019 è stato investito, mentre pedalava per le strade di Barcellona.

Pujan è morto.

È successo che a Milano il 24 aprile 2019, sulle strade bagnate dalla pioggia, Mohamed è caduto e si è rotto un braccio.

È successo il 21 marzo 2019 a Bologna, dove un autobus e un rider in bicicletta si sono scontrati. Ma per fortuna tutto bene. È successo anche a me di cadere sul bagnato mentre stavo lavorando.
Ma per fortuna tutto bene.

Pujan è morto. Per lui non c’è stato un lieto fine.

Dopo la sua storia, se mi capitasse di incontrare di nuovo quella mamma, le direi di pensarci bene, perché è fighissimo fare il rider, ma solo se non sei costretto a correre.

È fighissimo fare il rider, però Pujan è morto e ogni rider rischia la vita per una consegna in più, spesso senza nessuna tutela.

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